Si chiama Late, ed è una nuova forma di demenza che si camuffa da Alzheimer. Compare dopo gli 80 anni, ma nel 10% dei casi addirittura sopra i 65, causata dalla formazione di accumuli anomali della proteina TDP-43, e ha un’evoluzione rapida.

I sintomi in genere si limitano a problemi di memoria o difficoltà a trovare parole, oppure a nominare oggetti. Questa malattia si chiama Late (Limbic-predominant Age-related TDP-43 Encephalopathy) e sta cambiando la mappa del declino cognitivo. Parliamo di una forma di demenza recentemente riconosciuta che sta mutando la comprensione delle cose: migliora la capacità di diagnosticare i pazienti, sottolineando nel contempo la necessità di potenziare la gamma dei trattamenti.

“Quando le caratteristiche di questa patologia si associano a quelle tipiche della demenza di Alzheimer – spiega Paolo Maria Rossini, responsabile del modulo Neuromotoria C e direttore del Dipartimento di Neuroscienze e neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Roma -, ossia la presenza di placche di beta-amiloide negli spazi tra le cellule ed i grovigli neurofibrillari dentro i neuroni, inclusa l’atrofia dell’ippocampo, allora l’andamento di questa forma di demenza verrebbe ad essere piuttosto rapido. Quindi all’esordio tardivo si associa la rapida perdita delle autonomie del vivere quotidiano”.

Effetto Late

Se dovessimo catalogare la Late potremmo definirla una forma di demenza che si camuffa da Alzheimer ma non lo è, e che con quest’ultimo può andare a braccetto accompagnando i pazienti verso un declino veloce. L’encefalopatia TDP-43 correlata all’età prevalentemente limbica (Late) è scoperta recente. E, come tutte le demenze, porta alla perdita del funzionamento dei neuroni.

La patologia è stata identificata dai ricercatori grazie a degli studi autoptici che hanno permesso di rilevare la presenza di gruppi anomali di una proteina chiamata TDP-43 (che contribuisce normalmente a regolare l’espressione genica nel cervello e in altri tessuti). Quando si accumula, questa proteina concorre allo sviluppo di patologie cerebrali, come la demenza frontotemporale e la sclerosi laterale amiotrofica, causando deterioramento cognitivo. Ma dallo studio del tessuto dei cervelli donati, è emerso che i depositi di TDP-43 erano presenti anche in persone che non erano state colpite da Sla o Ftd.

La Late può contribuire al declino cognitivo sia da sola che assieme ad altre forme di demenza. In questo secondo caso, il tramonto della ragione potrebbe essere più rapido.

Quante persone colpisce

Un dato su tutti emerge dallo studio di questa forma di demenza: ai pazienti viene diagnosticata sempre di più, tanto che negli Usa sono state appena pubblicate linee guida che forniscono ai medici parametri per identificarla. Linee e guida da cui si stima che Late colpisca circa un terzo delle persone di età pari o superiore a 85 anni e il 10% di quelle di età pari o superiore a 65 anni. Senza contare che alcuni pazienti a cui è stato diagnosticato l’Alzheimer potrebbero in realtà essere affetti da Late.

Come si distingue dall’Alzheimer

Il punto da chiarire è come sia possibile distinguere l’Alzheimer da Late. Innanzitutto, la prima patologia comporta la formazione di placche di amiloide, seguite da un’altra proteina, la tau, che forma grovigli; Late invece prevede la formazione di accumuli anomali di un’altra proteina, la TDP-43 appunto. Ma entrambe le patologie causano problemi di memoria, difficoltà a pensare e a prendere decisioni, difficoltà a trovare le parole giuste, vagabondaggio o smarrimento. Per questa ragione il quadro clinico dei pazienti malati di Late è compatibile con il declino cognitivo ritenuto tipico dell’Alzheimer.

La certezza solo con esame autoptico

Tuttavia, una seconda differenza c’è, e si individua a livello anatomico, motivo per cui è possibile giungere con certezza alla diagnosi dell’una o dell’altra patologia soltanto dopo la morte, attraverso l’autopsia. Perché nell’Alzheimer, responsabili del deterioramento cognitivo sono l’accumulo della proteina beta amiloide e i ripiegamenti scorretti della proteina Tau che tende a formare aggregati. Nella Late è invece l’accumulo della proteina TDP-43 a danneggiare i neuroni. Le cause sono quindi biologicamente diverse.

È Rossini a chiarire i contorni di questa forma di demenza. “È nota già da qualche tempo – spiega -, e noi stessi, coordinati dalla professoressa Daniela Perani, neurologa, neuropsicologa e professoressa di Neuroscienze all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, l’abbiamo descritta in alcuni casi del progetto Interceptor e sulla medesima rivista lo scorso anno, anche se non è formalmente riconosciuta a livello di linee guida internazionali”.

“Nell’articolo pubblicato di recente sulla rivista Alzheimer’s & Dementia un panel di esperti internazionali cerca di dare a questa forma un profilo più definito che consiste in un esordio tardivo (spesso dopo gli 80 anni), un netto coinvolgimento delle strutture limbiche del cervello (strutture cerebrali che circondano il talamo e controllano emozioni, memoria, organizzazione del ritmo sonno/veglia e comportamento, fungendo da collegamento tra mente e corpo includendo ‘centraline vitali quali l’ippocampo, l’amigdala, il giro del cingolo e l’ipotalamo) – prosegue Rossini –. Quando queste caratteristiche si associano a quelle tipiche della demenza di Alzheimer, come la presenza di placche di beta-amiloide negli spazi tra le cellule e i grovigli neurofibrillari dentro i neuroni, inclusa l’atrofia dell’ippocampo, allora l’andamento di questa forma di demenza verrebbe ad essere piuttosto rapido. Quindi si registrano un esordio tardivo e una rapida perdita delle autonomie del vivere quotidiano”.

Ricerca veloce, diagnosi frammentata

Rossini mette in evidenza luci e ombre. “Ritengo che la ricerca stia facendo passi da gigante sui fattori di rischio, commettendo però l’errore di frammentare la diagnosi finale verso mille forme diverse, a seconda del fattore di rischio prevalente – sottolinea -. Questo rende sempre più confuso lo scenario generale per i malati, ma anche per i medici, e allontana l’identificazione di una strategia terapeutica complessiva”.

Aggiungendo: “È noto infatti che la demenza neurodegenerativa (quella in cui neuroni e circuiti nervosi muoiono anzitempo) in generale è una malattia multifattoriale in cui tante cause contribuiscono in modo percentualmente diverso da paziente a paziente verso l’esito finale, che è la morte del neurone e la distruzione dei circuiti che sostengono determinate funzioni cognitive. Sappiamo anche che i meccanismi che portano alla neurodegenerazione lavorano ‘al buio’ per decenni prima di manifestarsi con sintomi evidenti. Sappiamo che questo lungo intervallo è dovuto a fattori di ‘resilienza’ che permettono di resistere all’attacco sostituendo cellule e circuiti danneggiati, ma sappiamo poco o nulla proprio su questi fattori di resilienza”.

Fattori di rischio e di resilienza

L’esperto focalizza l’attenzione su un altro aspetto: “La forma finale della malattia, che definirei demenza e basta, si configura proprio nel confronto continuo tra fattori di rischio e fattori di resilienza, che sono come due pugilatori sul ring – dice -. Se nessuno dei due prevale, allora la malattia non si manifesta mai. Se invece prevale uno di quelli di rischio, la malattia si manifesta con forme e decorso che assumono forme diverse”. E conclude: “Continuare a descrivere malattie diverse come se avessero una genesi alternativa aiuta forse qualche medico molto colto a porre una brillante diagnosi, ma certamente non contribuisce a curare i malati e ad aiutare le loro famiglie”.

Infine, va considerata una cosa: intervenire con una terapia per l’Alzheimer in pazienti affetti da Late non genera i miglioramenti sperati. Spesso, quindi, quando ci si trova di fronte a un fallimento terapeutico in un caso di Alzheimer, è probabile che ci sia un errore di diagnosi e che si sia in presenza di Late.

 

Fonte: La Repubblica Salute