Rendere visibile un segnale appena percettibile, grazie all’utilizzo di nanoparticelle d’oro. E’ questo, in estrema sintesi, l’obiettivo di Sensor di Caterina Dallari, un progetto per la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer, attraverso lo sviluppo di un nuovo test del sangue. La ricercatrice del Laboratorio Europeo di Spettroscopia Non Lineare (Lens) di Firenze e dell’Istituto Nazionale di Ottica (Ino-Cnr) è infatti tra i vincitori del Bando Agyr 2024 (Airalzh Grants for Young Researchers) di Airalzh Onlus (Associazione Italiana Ricerca Alzheimer). Grazie a questo finanziamento potrà dunque proseguire gli studi in un campo di ricerca che mira a superare gli ostacoli attuali nella diagnosi della malattia.

Come si fa la diagnosi di Alzheimer, oggi

“Ad oggi il gold standard nella clinica per la diagnosi di Alzheimer si basa sulla rilevazione di biomarcatori, quali le beta amiloidi e le proteine tau, nel liquido cerebrospinale, un esame invasivo che prevede una puntura lombare piuttosto dolorosa – spiega la ricercatrice – Oltre all’analisi per la ricerca di biomarcatori sono poi necessari esami di imaging, come la Pet, utili per identificare la presenza di placche di amiloidi nel cervello. Ma tutti questi esami sono costosi, richiedono personale adeguatamente formato, sono utilizzati solo all’insorgere dei sintomi, e non consentono di immaginare una sorta di screening per la malattia nella popolazione”.

Quanto sarebbe più comodo potersi affidare solo a un prelievo di sangue? Dallari e colleghi non sono certo gli unici nella corsa verso un esame del sangue per l’Alzheimer, e un simile test per chi ha sintomi è stato già approvato negli Usa. Per il momento, però, gli esperti sono cauti, raccomandandone l’uso solo all’interno di studi clinici e in abbinamento a metodi più tradizionali.

Svelare le tracce dell’Alzheimer

“Il problema – riprende Dallari – è che nel sangue i biomarcatori della malattia sono presenti solo in tracce e ad oggi non esistono tecnologie in grado di rivelarle. La nostra idea, a cui lavoriamo da tempo, è quella di rendere più visibile queste tracce”. Come? Insieme a Elena Lenci, Co-Principal Investigator e Ricercatrice in Chimica Organica presso il Dipartimento di Chimica “Ugo Schiff” dell’Università di Firenze, Dallari fa affidamento su una strategia che si basa sulla spettroscopia Raman e che, in combinazione con delle nanoparticelle d’oro, consenta di rilevare in modo ultrasensibile i marcatori della malattia di Alzheimer. A collaborare al progetto anche Caterina Credi e Francesco Saverio Pavone dello stesso Lens di Firenze.

“La spettroscopia Raman di per sé è una tecnica molto sensibile, in grado di identificare le tracce di singole molecole. Le nanoparticelle d’oro possono innalzare questo segnale legandosi ai target, funzionando come dei biosensori ottici e rendendolo di fatto le molecole di interesse più visibili”, spiega Dallari.

Dalle nanoparticelle ai pazienti

In questa fase del progetto, che avrà una durata biennale, la ricercatrice e i colleghi stanno lavorando all’ottimizzazione del protocollo necessario a identificare queste tracce di biomarcatori nel sangue. Successivamente passeranno alla fase dei test veri e propri, analizzando il sangue di tre diversi gruppi di persone, in collaborazione con Valentina Bessi e Benedetta Nacmias dell’Azienda ospedaliera Careggi: alcuni con diagnosi di Alzheimer, altri con compromissione cognitiva lieve ed altri ancora dei controlli sani. In totale è previsto l’arruolamento di circa una sessantina di persone. “Parallelamente analizzeremo il loro liquido cerebrospinale – spiega ancora la ricercatrice – in questo modo potremo valutare la correlazione tra i due metodi di indagini, e poi stimare sensibilità e accuratezza del nostro metodo”.

Le sfide della malattia di Alzheimer

Nel caso dell’Alzheimer, la ricerca sulla diagnosi precoce corre parallela a quella su farmaci che siano davvero efficaci nel contrastare la malattia. Un compito che si è mostrato particolarmente difficile: “Negli ultimi anni però il panorama sta cambiando, sebbene non per tutti i pazienti – conclude Dallari – Una diagnosi precoce aiuta anche a migliorare la gestione della malattia, dando tempo alla famiglia di trovare soluzioni e servizi per affrontare la situazione”.

Fonte: La Repubblica Salute