Disegna una casa. Dimmi che giorno è oggi. Elenca parole che iniziano per «S». Nomina quanti più animali puoi in un minuto. Dagli anni ’80 test di memoria simili a questi, spesso eseguiti con carta e matita e valutati da medici ben addestrati a leggere i risultati, sono il pilastro nella diagnosi del morbo di Alzheimer, un disturbo del cervello che erode la memoria e il pensiero fino a rendere il paziente incapace di compiere attività molto semplici. Si stima che entro il 2050 si raggiungeranno 150 milioni di malati di Alzheimer in tutto il mondo.

Sebbene questi test basati sui sintomi siano efficaci nel determinare quando la memoria e il pensiero di una persona non sono normali, non sono altrettanto efficaci nell’aiutare i medici a scoprire la causa di questi disturbi, che possono derivare in verità da qualsiasi cosa: dalle carenze vitaminiche e ormonali a piccoli ictus , da tumori a infezioni, da disturbi correlati al Parkinson alla demenza a corpi di Lewy , oltre naturalmente alla malattia di Alzheimer.

I limiti dei test sulla memoria
Proprio i test basati sui sintomi sono ritenuti uno dei motivi del fallimento della sperimentazione di alcuni farmaci con l’obiettivo dell’eliminazione precoce dell’amiloide nell’Alzheimer. La revisione dei dati dei pazienti coinvolti negli studi clinici di due anticorpi monoclonali, bapineuzumab e solanezuma b (poi interrotti per inefficacia) ha rilevato che circa un terzo dei pazienti arruolati non aveva la malattia per la quale erano in trattamento, ovvero l’accumulo di beta amiloide o proteina tau nel cervello, segno distintivo della malattia di Alzheimer. Oggi ottenere una diagnosi precisa è ancora più fondamentale soprattutto in vista del possibile arrivo di nuovi e promettenti farmaci contro l’Alzheimer . Per questo negli Stati Uniti, dove terapie monoclonali sono già state approvate (tra mille criticità) sono in discussione nuove linee guida per la diagnosi della malattia.

Che cosa misurano i biomarcatori plasmatici
I test della memoria passerebbero in secondo piano rispetto ad altri biomarcatori: scansioni cerebrali, analisi del liquido spinale ma soprattutto i meno costosi e poco invasivi biomarcatori plasmatici dei quali si sta parlando anche nel congresso nazionale della Società Italiana di Neurologia in corso a Napoli. Questo tipo di test misurano livelli anomali delle proteine beta amiloide nel sangue, segnale caratteristico della malattia di Alzheimer, ma anche la presenza di proteina tau fosfolidata e il danno neuronale aspecifico (neurofilamento). La beta amiloide nel cervello si accumula lentamente nel corso di decenni, in genere a partire dalla mezza età, e diventa più comune con l’avanzare degni anni. Ci sono persone che pur con un accumulo di beta amiloide nel cervello non manifestano sintomi di declino cognitivo, ma nei pazienti con declino cognitivo causato dall’Alzheimer è sempre registrato un accumulo di beta amiloide. Per questo si crede che i pazienti con accumulo cerebrale di beta amiloide prima o poi andranno incontro a declino cognitivo.

Come la PET può cambiare la diagnosi
Un ampio studio pubblicato su Jama nel 2019 dai ricercatori del centro di ricerca sulla malattia di Alzheimer all’Università della California di San Francisco ha mostrato nel concreto quale impatto potrebbero avere questi biomarcatori. Nel corso di un paio di anni gli scienziati, guidati dal professor Gil Rabinovici hanno sottoposto a PET con tracciante radioattivo per illuminare i depositi di beta amiloide nel cervello oltre 11 mila pazienti con perdita di memoria e cambiamenti nel pensiero di causa incerta presi in carico in centri specializzati. L’imaging PET del cervello ha cambiato la diagnosi nel 35% dei pazienti coinvolti nello studio: l’Alzheimer è stato escluso nel 25% delle persone che si pensava ne soffrisse. A un altro 10% con problemi di memoria che si credeva causati da altra malattia è invece stato diagnosticato con certezza l’Alzheimer.  La scansione cerebrale che riesce a vedere i depositi di amiloide e ad arrivare a diagnosi certa di Alzheimer è tuttavia un esame molto costoso, in genere utilizzato per la valutazione clinica di pazienti arruolati in trial clinici e non per diagnosi di routine.

Allo studio nuove linee guida per la diagnosi
Testare tutti i pazienti con un sospetto di Alzheimer attraverso invasivi prelievi spinali (che necessitano di un day hospital) o costose scansioni cerebrali non può risolvere un problema di salute pubblica di massa, secondo il parere di molti scienziati. L’Associazione Alzheimer e i National Institute of Aging degli Stati Uniti stanno studiando nuove linee guida per la diagnosi di Alzheimer di cui si è discusso ad Amsterdam nel mese di luglio in occasione di una conferenza internazionale dell’Associazione Alzheimer statunitense. Per la prima volta le linee guida, che dovrebbero essere pronte entro l’anno, indirizzeranno i medici a utilizzare esami del sangue per rilevare i segni dell’Alzheimer nel cervello.

Il ruolo dei biomarcatori plasmatici
La ricerca mostra che i biomarcatori plasmatici sono affidabili come PET o misurazioni del liquido spinale per individuare le proteine dell’Alzheimer. Ma certamente sono meno invasivi e meno costosi. Sono moltissimi i biomarcatori del sangue studiati, ma finora nessuno è stato approvato da un Ente regolatore, neppure dall’Fda.Gli scienziati di tutto il mondo si aspettano comunque che entro pochi mesi i primi test saranno a disposizione sul mercato. Ad oggi negli Stati Uniti, tra molte polemiche, è venduto online direttamente al consumatore un test del sangue che misura i cambiamenti biologici associati all’Alzheimer ma le associazioni dei pazienti sono contrarie, giudicando prematuro offrire un esame del genere direttamente ai consumatori, senza la mediazione di un medico.

La diagnosi anche tra asintomatici?
L’Alzheimer potrà dunque essere diagnosticato anche in chi non ha ancora manifestato perdita di memoria. I biomarcatori plasmatici, come già sottolineato, non sono ancora disponibili, tuttavia lo saranno presto e il dibattito tra gli esperti, ma anche tra i pazienti, è sull’opportunità di conoscere con largo anticipo la positività a un biomarcatore plasmatico e non solo nella fase di decadimento cognitivo.

Biomarcatori plasmatici: un’opportunità di prevenzione
I biomarcatori plasmatici vanno letti anche in chiave preventiva. Sappiamo da tempo che tenere sotto controllo alcuni dei 12 fattori di rischio individuati nel 2020 da una commissione della rivista Lancet può forse evitare, ma certamente rimandare l’appuntamento con una malattia neurodegenerativa. La pressione arteriosa alta, ad esempio, è un co-fattore sotto diagnosticato nel 60% della popolazione. Con la giusta prevenzione potrebbero essere evitate 4 diagnosi di Alzheimer su 10. Sapere che si è positivi a un biomarcatore non può che essere uno stimolo a lavorare con impegno e costanza sulla prevenzione, prendendo sul serio le strategie per migliorare la salute del cervello con l’obiettivo di cambiare la storia naturale della malattia.

I 12 fattori di rischio Alzheimer sui quali ognuno di noi può intervenire
1-Ipertensione
2-Ipoacusia non curata
3-Fumo di sigaretta
4-Sedentarietà
5-Obesità
6- Diabete
7-Scarsa istruzione
8-Consumo di alcol
9-Inquinamento atmosferico
10-Traumi cerebrali
11-Consumo di bevande alcoliche
12-Fumo passivo

Fonte: Corriere.it