Ci sono tante persone con un cervello pieno di placche di proteina β-amiloide, ma alcune di loro si ammalano di Alzheimer e altre no. Perché? Una risposta a questa domanda l’hanno trovata gli scienziati dell’Università di Pittsburgh che hanno scoperto, e pubblicato su Nature Medicine, che oltre all’accumulo di proteina β-amiloide, tipicamente associato all’Alzheimer, perché ci si ammali c’è bisogno che si verifichi anche un altro fenomeno, e cioè l’attivazione degli astrociti, le cellule del sistema immunitario a forma di stella che circondano e proteggono i neuroni cerebrali.

L’attivazione astrocitaria è il segnale che è in corso una neuro-infiammazione, ma soprattutto, e l’hanno visto gli autori del paper, è segnalata dalla presenza di un biomarcatore ematico: la proteina GFAP. Questo significa che dosando i livelli di GFAP nel sangue si può misurare la reattività astrocitaria, e indirettamente valutare il rischio di andare incontro alla malattia quando ancora non dà segni di sé.

Conoscere i meccanismi della malattia di Alzheimer

“È una scoperta importante sia dal punto di vista della conoscenza dei meccanismi di malattia sia perché apre la strada a nuove opportunità farmacologiche”, spiega Enza Lo Re, neurologa responsabile servizio di Neurologia dell’ISMETT IRCCS di Palermo e Clinical Assistant Professor di neurologia all’University of Pittsburgh commentando lo studio. “Innanzitutto – riprende Lo Re – chiarisce perché alcuni individui cognitivamente sani, nonostante la presenza di depositi di β-amiloide nel loro cervello, progrediscono verso la malattia di Alzheimer e altri no: perché solo chi ha depositi cerebrali di β-amiloide e anche un’anomala attivazione astrocitaria progredirà verso la malattia”. 

Lo studio

I ricercatori USA hanno analizzato il sangue di circa 1.000 anziani tutti senza sintomi cognitivi di Alzheimer, alcuni con accumulo di amiloide. In tutti loro hanno misurato i livelli di GFAP e la presenza di proteina tau patologica. Tau è una proteina che contribuisce al funzionamento dei neuroni nel cervello. Quando non funziona correttamente forma aggregati, grovigli, che portano alla morte delle cellule nervose: i prodromi della malattia di Alzheimer.

Lo studio su Nature Medicine ha dimostrato che solo i pazienti che erano sia positivi all’accumulo di β-amiloide che alla reattività astrocitaria sviluppavano progressivamente accumuli di Tau patologica, andando negli anni incontro ai sintomi clinici dell’Alzheimer.

Il ruolo degli astrociti nella manifestazione dell’Alzheimer

Come ha dichiarato in una nota Tharick Pascoal, professore associato di psichiatria e neurologia a Pittsburgh e autore principale dello studio, “lo screening per la presenza di β-amiloide nel cervello insieme ai biomarcatori ematici della reattività degli astrociti rappresenta lo screening ottimale per identificare i pazienti più a rischio di progredire verso l’Alzheimer. Questo [lavoro, ndr] – ha aggiunto – mette gli astrociti al centro, come regolatori chiave della progressione della malattia, e sfida l’idea che la β-amiloide sia sufficiente a provocare l’Alzheimer”. Secondo Bruna Bellaver, postdoc al dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pittsburgh, e prima autrice del lavoro di cui parliamo, gli “astrociti coordinano” la relazione tra cervello, amiloide e tau.

Gli altri bersagli: nuovi farmaci e terapia precoce

Ma la scoperta, oltre ad ampliare la conoscenza sulla forma più comune e più grave di demenza – che nel mondo affligge circa 50 milioni di persone e che nel 2030 potrebbero superare i 70 milioni – permette di individuare le persone con un profilo di rischio elevato quando sono ancora in una fase preclinica “cioè quando la malattia non ha dato ancora segno di sé – riprende Del Re – e questo ha indubbiamente dei risvolti terapeutici fondamentali, che sono almeno due: primo, la possibilità di arruolare nei trial clinici persone ad alto rischio per l’Alzheimer in una fase molto precoce della storia naturale di malattia, quando ancora è subclinica, aumentando di conseguenza la possibilità di risultati positivi. Secondo, la possibilità di sviluppare nuovi farmaci, il cui bersaglio non sarà solo la proteina β-amiloide, ma anche mediatori dell’attivazione astrocitaria”.

Fonte: Repubblica.it