La malattia di Alzheimer è la più comune forma di demenza e rappresenta circa il 50-60% dei casi, in prevalenza donne. Il Report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2021 rileva complessivamente 55 milioni di persone con una diagnosi di demenza, destinate a diventare 78 milioni entro il 2030 e 139 milioni nel 2050. Una persona ogni 3 secondi si ammala di demenza, che costa complessivamente 1300 milioni di dollari all’anno con percentuali di crescita in futuro. Molti pazienti ancora non ricevono una diagnosi, in particolare la metà dei malati nei Paesi ad alto reddito e uno su dieci nei Paesi a basso reddito. Aumentare la consapevolezza della malattia e combattere lo stigma che colpisce i pazienti con demenza è il traguardo da raggiungere.

Perché ci si ammala?
La demenza è un processo degenerativo che colpisce le cellule cerebrali. Provoca l’alterazione progressiva di alcune funzioni, tra cui memoria, pensiero, ragionamento, linguaggio e orientamento. Nei pazienti affetti si osserva la perdita di cellule nervose nelle aree cerebrali vitali per la memoria e altre funzioni cognitive. Si rileva, inoltre, un basso livello di sostanze chimiche, come l’acetilcolina, che lavorano come neurotrasmettitori e sono coinvolte nella comunicazione tra le cellule nervose.

Prevenzione: quanto conta?
Moltissimo. Le consuete regole da seguire per vivere meglio hanno un incredibile effetto protettivo anche su questa malattia. «In età adulta è fondamentale controllare la salute cardiovascolare» – spiega – «in particolare l’ipertensione, il diabete, l’ipercolesterolemia e la sedentarietà che favoriscono la neuroinfiammazione». Dopo i 75 anni alcuni di questi elementi influiscono meno: «Diventano importanti non tanto le cose da eliminare ma quelle da fare» – continua – «come le attività fisiche e psico-sociali». Studi sperimentali confermano l’influenza potenziatrice delle attività fisiche ma soltanto a certe condizioni: «Che siano fatte piacevolmente» – rimarca – «se sono fonte di stress non ci aiutano. Passeggiare e fare le pulizie, a parità di calorie spese, non hanno lo stesso effetto protettivo».

E la dieta?
Sopravvalutarla può essere sbagliato. Eliminare completamente i piaceri della tavola non ha senso per la malattia di Alzheimer: «É sufficiente seguire la dieta mediterranea, l’unica certificata dalla scienza – spiega – che contempla consumo di frutta, verdura, cereali e l’assunzione di carne rossa in misura oculata». Anche un bicchiere di vino, il caffè a piccole dosi, mezzo chilo di olio d’oliva al mese, mandorle e noci sono benefici per la salute: «Tutti i trial in cui si è cercato di introdurre un solo elemento antiossidante prevalente sono falliti»- sottolinea – «la natura premia sempre l’equilibrio».

Cosa significa diagnosi?
Non esiste un esame specifico per determinare la malattia di Alzheimer. Il percorso diagnostico comprende la raccolta della storia clinica personale e familiare, la valutazione dello stato mentale, esami neurologici, di laboratorio e strumentali, infine una valutazione neuropsicologica e psichiatrica. Durante la prima fase della malattia, in cui sono prevalenti disturbi della memoria e del linguaggio, il paziente può diventare ripetitivo nell’esprimersi, tende a perdere oggetti, a smarrirsi e non ritrovare più la strada di casa. Può rivelare anche squilibri emotivi e reazioni imprevedibili. Nella fase intermedia manifesta invece deliri e allucinazioni mentre in ultimo perde completamente l’autonomia. Il malato smette di mangiare, non comunica e diventa incontinente, è costretto a letto o in sedia a rotelle. La durata della malattia è stimata circa 8-10 anni.

Quali cure?
I pazienti hanno a disposizione ancora le terapie di 25 anni fa, ovvero farmaci sintomatici con azione limitata per modificare la curva decrescente delle capacità cognitive. I primi farmaci clinicamente approvati per il trattamento della patologia, in grado di impedire la degenerazione del neurotrasmettitore (inibitori dell’acetilcolinoesterasi) sono stati approvati in Italia nel 2000. Nel 2003 si è aggiunta la memantina che ha la funzione di bloccare il glutammato. La ricerca per la malattia di Alzheimer sta vivendo attualmente un grande fermento. In particolare, sono fioriti numerosi studi sull’anticorpo monoclonali Ducanomab che dovrebbe rimuovere la proteina beta-miloide dal cervello: «Non hanno portato però i risultati clinici sperati» – afferma – «altri gruppi di lavoro si dedicano invece alla comprensione dei meccanismi delle reazioni infiammatorie nel cervello, per aumentare la resistenza a determinati stimoli tossici».

Cosa accadrà in futuro?
La ricerca sta facendo passi da gigante e punta a trovare tutti gli indicatori biologici che stabiliscono le probabilità di sviluppare la malattia di Alzheimer: «Questo è importante per intervenire precocemente, prima del danno acclarato» – afferma – «tra non molto basterà un esame del sangue per disporre di queste preziose informazioni». In ogni caso, non basta individuare il fiammifero che brucia la foresta per spegnere l’incendio: «Fondamentale investire molto di più sulla prevenzione e controllo dei fattori di rischio» – spiega – «sono azioni semplici e spesso sottovalutate». Applicate, ridurrebbero del 40% il numero delle diagnosi: «Se avessimo un farmaco simile farebbe la fortuna e il premio Noel di chi lo inventa» – conclude – «gli adulti devono convincersi che la salute è un bene a lungo termine».