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Cos’è il Tri Test?

Il tri test, o triplo test che dir si voglia, è una piccola batteria di esami biochimici, condotti su un campione di sangue venoso allo scopo di quantificare il rischio di anomalie cromosomiche nel feto. Come il nome stesso fa intuire, il tri test si basa sull’analisi delle concentrazioni sieriche di tre markers biochimici: l’alfafetoproteina, l’estriolo non coniugato e la gonadotropina corionica umana.

A cosa serve il Tri Test?

Dal momento che i valori di riferimento variano in relazione all’età gestazionale, questi test sono spesso supportati da un esame ecografico, in modo da stabilire precisamente l’epoca di gravidanza. Per effettuare il tri-test è sufficiente un semplice prelievo di sangue materno, prima del quale non è necessario il digiuno.

L’interpretazione dei risultati del tri test – in relazione all’età e ad altre caratteristiche della madre (peso, fumo, diabete ecc.) – permette di quantificare il rischio di dare alla luce un bimbo affetto da anomalie cromosomiche, come la sindrome di Down. Se tale rischio risulta maggiore di un certo valore soglia (> 0,4%), viene quindi suggerita l’esecuzione dell’amniocentesi, che permette di escludere o confermare il sospetto clinico. Durante questo esame, infatti, è possibile analizzare in modo diretto il cariotipo del feto (cioè il suo assetto cromosomico), grazie al prelievo di cellule fetali dal liquido amniotico. Purtroppo, com’è noto, l’amniocentesi si associa ad una certa percentuale di rischio abortivo (0.5% circa), connesso all’invasività della tecnica di prelievo.

I tre markers del Tri Test

FA FETOPROTEINA: in presenza di Sindrome di Down diminuisce di circa il 25-30%, mentre aumenta in maniera significativa quando sono presenti difetti del tubo neurale o della parete addominale. Pertanto, quando il valore dell’alfafetoproteina è particolarmente elevato, l’esame diagnostico di approfondimento non è l’amniocentesi ma l’ecografia.
ESTRIOLO NON CONIUGATO: al pari dell’alfafetoproteina diminuisce di circa il 25 – 30% in caso di sindrome di Down.
GONADOTROPINA CORIONICA UMANA: nelle gravidanze complicate da una Sindrome di Down raggiunge valori circa due volte superiori rispetto alla norma.

La valutazione complessiva di questi tre markers nel sangue, fa sì che l’attendibilità del Tri test raggiunga valori abbastanza soddisfacenti; si stima infatti che l’esame riconosca circa sei-sette casi di sindrome di Down su dieci. Una percentuale, questa, che può ulteriormente aumentare se al tri test viene affiancato il dosaggio di un ulteriore marker, l’inibina A (in tal caso, però, non si parla più di tri ma di quad test). In particolare, i valori di inibina A si elevano quando il feto è affetto da trisomia 21 (altro nome della sindrome di Down).

Il Tri test non può fare una diagnosi, ma esprime una probabilità.

Informazioni utili

Trattandosi di una metodica di screening, l’esito dell’esame non parla di positività o negatività ma – grazie all’ausilio di un software elaborato dalla Fetal Medicine Foundation (Londra) e alla valutazione di altri parametri (età materna, peso, fumo, diabete, gravidanze gemellari etc.) – esprime il rischio in termini statistici percentuali (ad esempio 1 caso patologico possibile su 1000 o un caso patologico possibile su 100). Se dallo studio emerge un alto profilo di rischio, quindi, il referto non dev’essere confuso con la capacità del test di individuare feti interessati dalla sindrome di down.

Piuttosto, significa che tra tutti quei casi per cui l’esame referta “attenzione, esiste un certo rischio che impone ulteriori accertamenti”, rientra anche una determinata percentuale di feti effettivamente interessati da sindrome di down (in questo caso il 70-80%). Alla successiva indagine amniocentica, quindi, la stragrande maggioranza dei feti si confermerà priva di qualsiasi anomalia cromosomica; questo perché generalmente vengono invitate ad eseguire tale indagine le gestanti con un profilo di rischio uguale o superiore ad 1:250 (probabilità > 0,4%).

LO SCOPO DEL TRI TEST È SOLO QUELLO DI IDENTIFICARE LE DONNE A MAGGIOR RISCHIO, A CUI OFFRIRE LA POSSIBILITÀ DI ESEGUIRE ULTERIORI INDAGINI. L’ESAME È QUINDI PRIVO DI QUALSIVOGLIA SIGNIFICATO DIAGNOSTICO.

Quando ci si sottopone ad un test di screening per le anomalie cromosomiche bisogna tener presente che:

• se il rischio di malattia è ridotto, non significa che sia nullo
• se il rischio di malattia risulta elevato questo non implica necessariamente che il feto sia affetto da anomalia cromosomica; piuttosto, significa semplicemente che il rischio è abbastanza elevato da giustificare un esame invasivo chiarificatore (villocentesi, amniocentesi o cordocentesi).
• pertanto una gestante che desidera avere la certezza assoluta circa l’assenza di anomalie cromosomiche, ed accetta il piccolo rischio associato a queste procedure diagnostiche, viene direttamente indirizzata ad amniocentesi o villocentesi, bypassando i test di screening.